Titolo della tesi: GULLIVER ALLA RICERCA DI LILLIPUT L’architettura ibrida nella transizione dal Contenitore (Bigness) al Sistema Relazionale (Smallness)
La dissertazione analizza le contaminazioni dell’architettura che emergono nella trasformazione dai grandi contenitori multifunzionali fino ai più recenti edifici complessi di minori dimensioni e che sono il frutto di una ibridazione tra architettura, paesaggio e infrastruttura. Attraverso la lente della dimensione ibrida, infatti, emerge una significativa evoluzione concettuale e produttiva.
In questa prospettiva di studio, l’ibrido viene letto come un operatore teorico e si declina prima come contenitore ibrido (oggetto-architettonico), poi come ibridazione (architettura-paesaggio), infine come campo ibrido (architettura-infrastruttura). Si afferma così un ambito teorico caratterizzato dalla capacità di riconnettere a sistema gli elementi e approdare a significati costantemente rinnovati.
In altri termini, dapprima le opere evidenziano una disgiunzione tra contenuto e contenitore, tra forma e funzione, in cui si rileva una spazialità interna dilatata, un paesaggio indoor fissato dalla staticità dell’involucro, dove l’ibrido si manifesta come una presenza intrinseca rappresentativa di un’idea di “città nella città”, uno spazio centripeto, tutto proiettato all'interno del volume architettonico.
Successivamente detta disgiunzione si orienta verso un assottigliamento dei confini entro i quali opera l’architettura, giungendo poi a definire un’ibridazione che agisce sullo spazio intermedio, come presenza liminare che si concentra sul perimetro e sul bordo, quale ambito di ricongiunzione tra architettura e paesaggio: in questa prospettiva il ruolo più significativo della superficie porta a un affievolimento del vincolo volumetrico. Le perimetrazioni disciplinari si avviano dunque a una dissoluzione, favorita dallo slancio vitale offerto dal paesaggio.
La dissertazione coglie infine un ulteriore scarto concettuale determinato dalla capacità degli elementi di organizzarsi a sistema agendo in un campo più libero di riconnessione tramite uno sconfinamento che riassorbe le istanze precedenti. Il discorso architettonico si esprime così in un ambito di infrastrutturazione più ampio, un campo ibrido espanso caratterizzato da una presenza estrinseca dell’ibrido. In questo modo si genera uno spazio centrifugo in grado di compiere connessioni ad ampio respiro con un congiungimento tra architettura e infrastruttura attraverso direttrici di intensità e figure dell’estensione. Lo sconfinamento rappresenta una nuova fase in cui l’architettura acquisisce una rinnovata consapevolezza identitaria mediante una dilatazione delle sue attribuzioni e degli strumenti teorici ed operativi.
Ambito di approfondimento della dissertazione è la metropoli contemporanea, connotata dal progressivo abbandono di modelli urbani riconoscibili, per aprirsi ad accogliere le contraddizioni, il molteplice e l’eterogeneo. La dissoluzione dei limiti tradizionali porta a un ripensamento della città vista ora come sistema aperto e in continua trasformazione (Sennett, 2018), in cui l’incessante inurbamento e l’elevata densità introducono un cambio dei valori attribuiti allo spazio tradizionale delle città che tende a configurarsi in forme discontinue, generando una fragilità interna alla città stessa: benvenuta cultura della congestione! (Koolhaas, 2001).
Le risposte fornite dagli architetti a questa nuova condizione metropolitana evidenziano in primo luogo una produzione connotata da un certo grado di oggettualità (architetture-oggetto), per poi acquisire una Nuova Dimensione, un ampliamento di scala, in cui il rapporto di subordinazione tra architettura e urbanistica viene meno, fino a essere quest’ultima assorbita nell'operatività dell’architettura attraverso la produzione di edifici di grandi dimensioni.
La disgregazione del contesto urbano e la distribuzione frammentata dei suoi spazi inducono a un’introversione dello spazio pubblico all’interno dell’edificio, minando il rapporto da esso sotteso con l’intorno circostante. La città diventa quindi “punteggiata” da una serie di volumi autosufficienti che non rivelano una strategia di connessione tra loro ma, al contrario, sono connotati da un forte ripiegamento spaziale che attribuisce a queste opere il valore di macro-contenitori della più ampia scala urbana.
L’astrazione dal contesto e l’autosufficienza che caratterizza questi edifici denunciano un cambio radicale nella logica progettuale sia architettonica sia urbana: questo sistema di micro-mondi individua la città stessa e non più un impianto sul quale essa si identifica, compromettendo il rapporto tra edificio e ambiente circostante. Emerge un passaggio concettuale fondamentale che vede l’affiorare di una Nuova Dimensione architettonica: il sorgere di città nelle città, secondo la logica della scatola amorfa al cui interno possono trovare posto molteplici spazialità ed elementi architettonici: i contenitori ibridi. Questo passaggio segna l’ingresso nell’architettura di edifici-contenitore caratterizzati da una semplificazione del linguaggio formale, ovvero una tensione verso la neutralizzazione estetica e un rafforzamento degli accorgimenti tecnici e strutturali che consentono di raggiungere dimensioni sempre maggiori.
Emblemi della città contemporanea, queste tipologie di edifici acquisiscono e metabolizzano la struttura metropolitana, diventando quindi contenitori all-inclusive in grado di riassumere tutti i tipi di spazialità e complessità urbana. Nello specifico, il loro sviluppo assume l’aggettivazione di contenitori ibridi in quanto sono contraddistinti dalla compresenza di programmi misti, dalla simultaneità di usi e dalla coniugazione di funzioni collettive e spazi privati all'interno di un unico volume. Caratteristiche che conferiscono a questi edifici un valore anche sociale.
Percorrendo le tappe evolutive degli edifici-contenitori, la loro formazione affonda le radici nella progressiva introversione delle funzioni pubbliche e nell'inserimento di porzioni di urbano che già vede i primi tentativi di ricerca teorica a partire da alcune opere dei Maestri del Moderno, tra cui in particolare Le Corbusier e Mies Van der Rohe. Queste indagini teoriche all'interno dell’architettura cosiddetta “ufficiale” affiancano sperimentazioni legate a motivi di ordine economico e commerciale (fabbriche produttive, centri commerciali, shopping mall, grattacieli, etc) che sono generate dalla necessità di dare risposta costruttiva in termini di abbattimento dei costi e di efficientamento produttivo. Pertanto, i contenitori ibridi, intesi come scatola al cui interno trova posto un micromondo urbano, risultano essere figli di un processo spurio che procede per contaminazioni, un’architettura che ha dovuto sporcarsi le mani per risolvere in modo pratico le necessità di una società in evoluzione. In questa traiettoria evolutiva si riscontra un progressivo aumento dimensionale degli edifici che chiamano in campo competenze trasversali tra ambiti disciplinari distinti.
L’ingresso nella Grande Dimensione segna un momento fondamentale in architettura, dove la teoria della Bigness (Koolhaas 1990) enunciata da Rem Koolhaas sancisce uno spartiacque in cui si palesa la necessità per l’architettura di “scendere a compromessi” con altre discipline. Il fattore strutturale e la fiducia nella tecnica divengono, secondo questa analisi, condizioni essenziali per garantire all’interno del grande formato l’adozione del fattore urbano indoor.
Nel loro sviluppo, i contenitori rimandano a una duplice declinazione, in orizzontale e in verticale, che deriva rispettivamente dalla trasformazione di due tipi edilizi: le architetture delle fabbriche produttive e i grattacieli. Nel primo caso, si assiste a una progressiva estensione dello spazio libero in senso orizzontale, messo in atto attraverso tecniche costruttive in grado di consentire l’eliminazione di qualsiasi elemento derivante dalla struttura portante, per lasciare lo spazio in pianta il più possibile privo di ostacoli. Nel secondo caso, si opera per sovrapposizione di piani autonomi, lavorando verticalmente attraverso una strategia di indipendenza funzionale tra un livello e l’altro.
Il passaggio negli anni Sessanta, dall'epoca della produzione a quella del consumo, segna un momento significativo nel sorgere di nuove forme di architetture-contenitore che diventano il mezzo di raffigurazione dei desideri umani, in cui lo spazio interno acquisisce la potenzialità di una vera e propria riorganizzazione sociale attraverso una visione originale dello spazio pubblico contemporaneo. Opere autoreferenziali che assumono un certo grado di neutralità e indeterminatezza: prodotti di sconfinamenti tra architettura e città che segnano la fine di quella continuità tra architettura e urbanistica auspicata da Zevi con il nome di urbatettura (Zevi, 1984).
A distanza di vent'anni, il concetto di Grande Dimensione o Bigness sembra tuttavia entrare in crisi in corrispondenza con la depressione economica dei primi anni del nuovo millennio. Infatti, si avvia una fase di recessione con conseguente ripensamento delle teorie formulate negli anni Novanta (Otero Pailos, 2010), contrassegnando un rescaling in cui l’ibrido viene assorbito nel piccolo formato, con l’acquisizione di un ulteriore grado di complessità. In un’epoca in cui la forte instabilità e le migrazioni di massa richiedono di individuare nuovi approcci operativi, secondo una linea più attenta alle identità specifiche e alle esigenze dei singoli, l’architettura sembra riannodare un contatto con il contesto, superando la concezione oggettivista dell’edificio autosufficiente. Dalla “liberazione dal suolo” alla “architettura del suolo”, il progettista “riaffonda” nel terreno inseguendo una simbiosi col paesaggio. Si apre una nuova era con un’architettura meno autoreferenziale, più multidisciplinare, in cui riecheggia una rinnovata attenzione ai temi ambientali, ai toni e ai materiali della natura. Si consuma una ricomposizione di quella separazione tra edificio e suolo, un distacco ontologico sublimato dai pilotis e dagli edifici ibridi di prima generazione.
La nuova fase del pensiero architettonico, che la critica contemporanea sta elaborando, svela l’intenzione di declinare l’insegnamento della Bigness a una scala più piccola, per così dire della Smallness, concepita come reintegrazione dell’architettura nel contesto e come capacità di costituirsi quale sistema relazionale (Montaner, 2008). Le contaminazioni tra l’architettura, il paesaggio e l’infrastruttura indicano un transito disciplinare ed evidenziano l’acquisizione di un altro grado di complessità che parte dalla necessità di rivedere la relazione dell’architettura con l’intorno, ripensando il progetto anche secondo una logica interscalare (Gausa, 2016). In questo senso, l’ibrido si configura come un ambito teorico che consente di operare una ricongiunzione, un merge di architettura, infrastruttura e paesaggio: si compie una fusione progettuale in cui l’architettura si “paesaggizza” e il paesaggio si “architettonicizza”.
Si tratteggia una nuova dimensione identitaria dell’architettura che è lontana da operazioni di mimesi o simbiosi. Si evidenzia infatti una vera e propria riconfigurazione multidisciplinare in un campo ampliato e rinnovato, una maturazione che si sviluppa attraverso uno stretto dialogo per assorbimento e interscambio con l’essenza che appartiene al paesaggio e alle infrastrutture, per arrivare a presentarsi come un nuovo sistema relazionale, che agisce in favore di una riconnessione con il territorio circostante.
Si esplora dunque un arricchimento del campo stesso dell’architettura che accoglie lo spirito delle altre discipline e così facendo giunge a una dissoluzione dell’idea di una produzione per oggetti isolati, reinserendoli all'interno di uno spazio più ampio di relazioni. Questa è l’idea alla base della nozione di anti-oggetto elaborata dall'architetto giapponese Kengo Kuma (Kuma, 2014), che auspica il definitivo abbandono dell’edificio come oggetto architettonico e mira invece a intrecciare una rete di interrelazioni e interconnessioni con l’intorno circostante. La nozione finale di anti-oggetto, cui la dissertazione fa riferimento, segna l’apice di una strategia di azioni che esplorano la dissoluzione dell’architettura in termini identitari tradizionali e segnano l’avvio di un ritrovato rapporto con il territorio e il paesaggio.
Un ulteriore passaggio concettuale è infine rappresentato dall'affermazione della condizione di campo ibrido (Allen 1999). L’ibrido a questo punto opera annullando le gerarchie favorendo interscambi generati da una condizione di libertà. Per questa sua capacità di muoversi tra le diverse discipline e alle diverse scale, l’ibrido mostra la sua forza trasversale in termini di inter-scalarità. La ricongiunzione tra architettura, paesaggio e infrastruttura porta con sé un potenziale liberatorio dai dogmi compositivi, un ripensamento dell’approccio progettuale partendo all'origine, ossia una radicale revisione dei suoi elementi. In questa nuova ottica, l’architettura viene vista quale supporto e palinsesto in grado di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti. Una disciplina che non fornisce risposte rigide ma si muove su un terreno liminare tra ambiti differenti e cerca di costruire un atteggiamento progettuale aperto che possa fronteggiare gli eventi imprevedibili e supportare future trasformazioni.