FABIO D'AVERSA

Dottore di ricerca

ciclo: XXXII


relatore: Prof. Marco Marazza

Titolo della tesi: Il diritto di critica del lavoratore anche alla luce dei Social Media e degli altri sistemi di interazione

L’inarrestabile e repentina affermazione (e trasformazione) delle tecnologie nella vita quotidiana dell’individuo-lavoratore ha determinato (e determina), da un punto di vista sistematico, la necessità per il Giurista di ripensare i “classici” (o, meglio, tradizionali) istituti giuslavoristici, riscoprendo limiti ed interazioni prima, almeno dai più, trascurate o, quantomeno, poco valorizzate. In questa virtuosa logica di riscoperta si colloca il diritto di critica esercitato, utilizzando le parole impiegate dalla Corte Costituzionale, mediante «forme di comunicazione [...] elettroniche, informatiche [...] o con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia». Una premessa, alla luce di quanto sopra, si rende, sin da subito, necessaria. Molto spesso non è infrequente che l’interprete, dinanzi all’incessante diffusione - in special modo nel rapporto di lavoro - delle nuove tecnologie, sia persuaso, nel contesto di un’epifania tecnologica post-industriale, di affrontare “sfide” giuridiche del tutto nuove o, comunque, tali da sovvertire i tradizionali istituti del diritto del lavoro (e non solo). In realtà, spesso e volentieri, non è raro che, nonostante le apparenze, pur prendendo atto della trasformazione in corso, non vi sia nulla di nuovo sotto il sole tale da scardinare i “classici” (o, meglio, tradizionali) istituti giuslavoristici (così come interpretati dalla dottrina e dalla giurisprudenza) che, in tale prospettiva, necessiterebbero, semmai, di un ripensamento “adeguatore”. In questa prospettiva, come si vedrà, sembra collocarsi il diritto di critica che, seppur nella schizofrenia della recente giurisprudenza (di cui si dirà infra), evoca, questioni già note (in primis la necessità di individuare i limiti alla libertà di pensiero del lavoratore) senza, pertanto, che sembrino scardinati i tradizionali principi affermati in materia. Certo è che, sul punto, il ripensamento “adeguatore” di cui sopra sarà imprescindibile in una specifica prospettiva: non tanto, come visto, sul diritto di critica in sé considerato, bensì, a valle, sul potere del datore di lavoro, in special modo nell’ipotesi in cui la critica ecceda i limiti di continenza (di cui si dirà infra), di acquisire le manifestazioni di volontà “contenute” in Social Media, chat, etc. che, per caratteristiche e funzionalità, risultano, come ovvio, diversi dagli antenati spazi o canali di interazione e comunicazione sociale già oggetto di diffuso esame in dottrina e giurisprudenza (assemblee, riviste, volantini, bacheche, etc.). Il presente lavoro intende, anzitutto, muovere da una ricostruzione lato sensu “istituzionale” del diritto di critica (Cap. I, II e III) al fine di rintracciarne il fondamento dogmatico, i limiti e le peculiarità nel contesto del rapporto di lavoro, anche alla luce dei “tradizionali” orientamenti interpretativi forniti dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale. Tale approccio d’indagine, oltre ad essere motivato da ragioni eminentemente metodologiche, è animato dalla consapevolezza che uno studio finalizzato ad indagare l’impatto dell’innovazione tecnica e tecnologica sui “classici” (o, meglio, tradizionali) istituti giuslavoristici (quale il diritto di critica) non può prescindere, anche al fine di comprendere le implicazioni del presente, dallo “stato dell’arte” e, cioè, dagli approdi normativi ed ermeneutici acquisiti nella materia. In tale contesto, nella prima parte del lavoro, prendendo atto che il tema del diritto di critica nel rapporto di lavoro costituisce una proiezione sul terreno giuslavoristico del più ampio orizzonte dogmatico dei diritti della persona e, più in particolare, dei diritti fondamentali riconosciuti al lavoratore come cittadino, l’indagine si soffermerà, nell’ambito di quel fenomeno definito come “costituzionalismo multilivello” o, meglio, di “tutela multilivello dei diritti”, sulla libertà di manifestazione di pensiero, quale prius logico-giuridico del diritto di critica e «diritto fondamentale “coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione” […] “pietra angolare dell'ordine democratico” […] “cardine di democrazia nell'ordinamento generale”». Libertà che, pur essendo un caposaldo imprescindibile di una società pluralista e democratica, non può (come si vedrà) ritenersi “tiranna”, incontrando, infatti, necessariamente dei limiti di carattere generale derivanti dal contemperamento della stessa con altri valori ugualmente tutelati dall’ordinamento “multilivello” (primi tra tutti l’onore, la reputazione e l’immagine). Avvicinata la lente d’indagine alla specialità del diritto del lavoro (Cap. IV) si avrà poi modo di apprezzare come la libertà di manifestazione del pensiero e, più in particolare, il diritto di critica siano connotati da una specifica e complessa fisionomia ed autonomia nel contesto lavorativo in considerazione dell’inserimento del prestatore di lavoro nell’organizzazione datoriale e della sua posizione di subordinazione e degli obblighi ad essa connessi. Difatti, se da un lato la libertà di manifestazione del pensiero del lavoratore sembra configurare «un limite al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, che dovrà «sopportare» l’esplicarsi della libera esternazione del pensiero dei dipendenti, anche qualora si diriga polemicamente contro le decisioni […] aziendali», dall’altro «l’inserimento del lavoratore nel nesso contratto-subordinazione-organizzazione […] consente di affermare che proprio contratto, subordinazione e organizzazione siano la triade con cui si deve confrontare la libertà di espressione del lavoratore nei luoghi di lavoro». Preso atto del fondamento dogmatico, dei limiti e delle peculiarità del diritto di critica nel contesto del rapporto di lavoro lo studio, nell’ultima parte dell’indagine (Cap. V), dinanzi ad alcuni recenti arresti giurisprudenziali, cercherà di comprendere ed indagare se lo spazio “virtuale” (Social Media, chat, etc.) in cui la critica è esercitata possa, in qualche modo, per le sue intrinseche caratteristiche, incidere sulla liceità o meno della manifestazione di volontà qualora, in particolare, la stessa, travalicando i limiti che si diranno, risulti offensiva o, comunque, denigratoria dell’onore, della reputazione ovvero dell’immagine del datore di lavoro. Difatti, non sono mancati orientamenti giurisprudenziali che, sulla base della natura “chiusa” o “segreta” dei sistemi di interazione sociale, sembrerebbero aver affermato, destando non poche perplessità, la liceità tout court della critica eccedente i limiti di continenza (per via del carattere riservato del sistema di interazione e della limitata divulgazione dell’offesa). All’esito dell’esame del profilo testé descritto, lo studio si concentrerà, sempre nella seconda parte del lavoro, su una ulteriore e non secondaria riflessione. Difatti, la natura dello spazio “virtuale” sembrerebbe, in prospettiva, esercitare una forte spinta dilatatoria sul limite della continenza formale per via di quella che può essere definita come la «decadenza dei costumi» dei nuovi sistemi di interazione sociale (e, in particolare, dei Social Network). Già in passato - quando ancora i Social Media erano sconosciuti alle aule giudiziarie - la Suprema Corte di Cassazione ebbe modo di affermare che la continenza delle espressioni utilizzate va apprezzata tenendo conto che, anche a causa dell’influenza dei media, nel corso degli anni si è assistito ad un rapido e radicale mutamento del linguaggio, attraverso un utilizzo sempre più frequente e disinvolto di toni aggressivi ed esasperati e di espressioni colorite ed irriverenti. Sebbene tale progressivo deterioramento del linguaggio e del modo di rapportarsi al proprio contraddittore sia criticabile sul piano del costume, esso ha determinato (e determina) un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale, di cui, da un punto di vista giuridico, anche secondo la giurisprudenza di legittimità, non è possibile non tenerne conto. La natura e la qualificazione degli spazi “virtuali” in cui è esercitata l’esternazione determina, da ultimo, sempre nell’ultima parte dell’indagine, il problema di comprendere, nella specialità della disciplina giuslavoristica, se ed entro quali limiti il datore di lavoro possa acquisire ed utilizzare informazioni (e, quindi, anche le esternazioni) contenute nei nuovi spazi di interazione sociale e, al contempo, orientare e conformare il comportamento tenuto dal lavoratore in tali luoghi virtuali (dove, sempre più, si assiste all’inevitabile commistione tra vita privata e vita lavorativa dell’individuo). In tale prospettiva, nell’ultima parte del presente lavoro, si andranno ad esaminare gli artt. 4 e 8 della L. n. 300 del 1970 (disposizione, quest’ultima, risalente al 1970 e, quindi, prima che nel nostro ordinamento fosse riconosciuto dalla giurisprudenza, un vero e proprio diritto alla riservatezza evolutosi, nel tempo, sino a divenire quello che, ad oggi, conosciamo e definiamo come diritto alla privacy). Si tratta di due disposizioni pensate e poste a tutela del contraente debole al fine di limitare possibili ed illegittime ingerenze del datore di lavoro nella sfera privata e riservata del lavoratore in special modo oggi con riferimento ai nuovi spazi “virtuali” e, cioè, a sistemi in grado di mettere a disposizione dell’imprenditore una rilevante mole di informazioni (a titolo gratuito). Si tratterà, nella sostanza, nell’ultima parte del lavoro, di dare attuazione al ripensamento “adeguatore” visto in premessa facendo, ancora una volta, ricorso alla, sempre attuale, cassetta degli attrezzi “giuslavoristica”.

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