Thesis title: Spazi senza Uomo. Nuovi paradigmi dei contenitori di memoria
La traduzione del tangibile in dati immateriali ed il processo di irrefrenabile automazione stanno determinando un profondo ed ineluttabile cambiamento dello spazio che abitiamo, sottendendo questioni politiche, ambientali, certamente economiche e soprattutto sociali.
Nel 1969 il gruppo Archizoom presenta attraverso il manifesto “No-Stop City” una nuova logica di scrittura urbana avulsa da qualsivoglia codice figurativo e rispondente ai soli precetti di ottimizzazione e ordinazione gerarchica della macchina e della produttività. “Un livello radicale di rappresentazione della città contemporanea” che propone un tessuto urbano ininterrotto e aperto ad accogliere la dilagante industrializzazione. Similmente, oggi, centri logistici, Data Center o industrie agricole automatizzate sono contenitori ipertecnologici ed indispensabili che si addensano nel tessuto extraurbano. Devoti alla sola ottimizzazione performativa, essi determinano un paesaggio non più volto ad essere esperito dall’essere umano, ridefinendone il ruolo attraverso un progressivo processo di disoccupazione.
Quello di spazio architettonico e di “inoccupante” possono apparire termini antitetici, ma è proprio sul confine tra l’idea di spazio e la sua apparente negazione che si inserisce il campo di indagine della ricerca. Un viaggio che necessita di aprirsi a mondi figurativi ed immaginifici per comprendere la natura di quei luoghi svuotati, celati, inviolati, dissimulati, inaccessibili o non ancora esplorati.
Lo spazio senza uomo, di cui si propone una definizione dichiaratamente esplorativa, non identifica uno spazio in cui l’essere umano è necessariamente assente, ma un luogo in cui la sua presenza è del tutto marginale: egli non ne è più l’occupante, ma il beneficiario.
In questo contesto, il Data Center è un esempio rappresentativo di spazio senza uomo, assurgendo a trasposizione contemporanea del Mundaneum digitale. Dislocati ai margini del tessuto densamente popolato, teatro di ciò che di più interessante avviene nel mondo contemporaneo, sono 8.6 milioni i Data Center attualmente operanti, ponendo interrogativi tanto importanti quanto inevitabili. In prima istanza, la smisurata scala degli enormi ed ipertecnologici depositi suggerisce una riflessione circa il rapporto con il contesto che abitano, in un processo di inesorabile e necessaria astrazione.
In secondo luogo, appare evidente che i dati implichino una dimensione spaziale estremamente affascinante che vive proprio del rapporto apparentemente paradossale tra contenitore tangibile e contenuto immateriale, sottendendo la potenzialmente illimitata capacità contenitiva del Data Center. Basti pensare che nel 1971 un floppy disk riusciva contenere un massimo di 0.00007 Gb di dati quando oggi una minuscola pennetta USB racchiude anche fino a 250 Gb. Un contenuto, oltretutto, inconsumabile perché digitalizzato, che interroga l’uomo, essere finito, sull'importanza della conoscenza e, forse, la necessita dell’oblio. L’intento della ricerca è, da un lato, quello di sostanziare una lettura criticamente tipologica del Data Center che assurge a simbolo del nostro secolo e di una instancabile accumulazione. Dall’altro di prefigurare delle traiettorie di evoluzione muovendo dalla intrinseca temporaneità e mutevolezza dell’edificio stesso che costringe ad interrogarci sul suo ruolo futuro nel paesaggio antropico.
Si diramano molteplici percorsi e tracciati che contrappongono una possibile apertura ad un processo di risignificazione e riscrittura, alla rivendicazione di obsolescenza dell’edificio stesso, all’inclusione nel tessuto urbano o all’inesorabile processo di monumentalizzazione che fa del Data Center simbolo e memoria di un futuro passato, trascendendo il contenuto stesso.