Titolo della tesi: I linguaggi del diritto tra scienza, politica e società
Il presente lavoro di ricerca si pone il fine di presentare la centralità dei linguaggi del diritto, là dove si intenda con l’espressione “linguaggi” la capacità del diritto stesso di elaborare livelli diversi dell’Ordinamento giuridico in grado di orientare politica e scienza in modo che, democraticamente, gli stessi cittadini possano essere correttamente edotti in merito alle decisioni della prima e alla potenza della seconda.
Nell’ambito del percorso che è venuto delineandosi un ruolo di primo piano ha assunto la riflessione di Max Weber, il cui pensiero è stato qui accolto non già nei puri termini di una sua disamina, bensì in quanto bussola per districarsi nel complesso mondo dato dall’intreccio sociologico e giuridico tra scienza, politica e società.
Certamente, molti dei problemi sopra richiamati erano ancora lontani dall’apparire quando Weber pronunciò le due conferenze di Monaco dedicate alla scienza e alla politica come professioni. Tuttavia, in tali conferenze Weber esprime concetti che ancora oggi mostrano una loro attualità e una loro cogenza, toccando una varietà di punti attualissima, dal politeismo dei valori alla avalutatività, dalle forme del lavoro intellettuale all’ascesi intramondana, ultimo eroico baluardo contro l’insensatezza di una irrazionalità elevata essa stessa a valore.
Non si è qui, pertanto, in presenza di un puro lavoro monografico su Weber; piuttosto ciò che si è cercato di evidenziare è come sia ravvisabile, a partire dal XX secolo, un filo rosso che, attraverso Weber, percorre gli studi socio-politici, indirizzando la riflessione verso orizzonti di senso che consentano di comprendere, certo in modo problematico e non apodittico, i nodi che legano l’impresa scientifica e l’elemento politico nello spazio sociale del diritto e dei suoi linguaggi.
In questa direzione, il presente lavoro si è focalizzato sul contesto culturale nel quale si è formato il pensiero weberiano, un contesto storicamente complesso e non solo riducibile al filone storicistico allora imperante in Germania.
Come ha variamente mostrato Massimo Cacciari, Weber subisce due influenze apparentemente contraddittorie; da un lato, egli si ispira alla scienza rigorosa di Edmund Husserl, volendo dare alla parola “scienza” un significato del tutto nobile e universalistico; dall’altro, egli prende come punto di riferimento, Friedrich Nietzsche e l’idea che la conoscenza non abbia mai a che fare con meri dati di fatto, ma con l’interpretazione storica di essi. Così Weber risulta essere senz’altro – ma con strumenti concettuali husserliani – un neokantiano, al tempo stesso risultando però un distruttore della metafisica razionalista in senso nietzscheano. Ed è all’interno di questo arco teorico che Weber pone la sua riflessione su scienza e politica (con un occhio evidentemente proteso al diritto).
Nel primo capitolo, vengono esaminate queste ascendenze storiciste e neokantiane, entro un excursus che da Wilhelm Dilthey e Heinrich Rickert giunge fino a Georg Simmel e a Friedrich Meinecke, capitolo nel quale si cerca anche di cogliere il momento critico dell’approccio di Weber agli Autori soprarichiamati (particolarmente significativa in quest’ottica la critica weberiana a Dilthey, la cui ermeneutica viene considerata come una mera sovrapposizione degli interpretante all’interpretato, con la conseguenza che nel concetto diltheyano di empatia non troverebbe spazio una comprensione oggettiva del fenomeno storico-sociale indagato, risolvendosi quest’ultimo in un inesplicabile rapporto soggettivo tra il conoscente e il conosciuto).
La sociologia e le scienze politiche e sociali sono infatti per Weber sì discipline comprendenti, alle quali tuttavia non può essere mai sottratto l’orizzonte di una oggettività avalutativa, seppure misurata da quegli a priori del conoscere storico e sociale che soni i “tipi ideali” (idealtypus).
Mentre, in effetti, si profilavano pericoli intrinseci alla politicizzazione della scienza, all’insegna della crescente traduzione scientifica della politica, per esempio della politica economica e sociale, Weber prende così posizione per un sapere scientificamente descrittivo e neutrale. Egli, in più punti della sua opera – ed in particolare ne "Il metodo delle scienze storico-sociali" –, mostra il senso dell’esigenza di “avalutatività” nelle scienze economiche e sociali, secondo la quale è necessario che lo scienziato distingua tra ciò che si può concludere in modo puramente logico o che derivi da certificazioni puramente empiriche dei fatti e ciò che è considerazione pratica e valoriale, non permettendo allo scienziato sociale di introdurre nel proprio discorso prese di posizione valutative di tipo ideologico e politico. Con questa esigenza non si mettono in discussione né la necessaria selezione logica degli oggetti della conoscenza soggiacente a punti di vista valutativi, né la possibilità dell’indagine empirica di azioni legate al valore e alle decisioni di valore. La sistematizzazione della presa di posizione valutativa e l’elaborazione di assiomi di valore ultimi fanno parte piuttosto, al pari dell’esposizione delle conseguenze attuali della loro realizzazione pratica, dei compiti della scienza sociale.
In quest’ottica, i “tipi ideali” o “idealtipi”, argomento del secondo capitolo, diventano strumenti metodologici fondamentali per delineare l’oggettività della ricerca sociale. Segnatamente, l’idealtipo è una sorta di regola generale e ipotetica degli eventi, costruita mediante astrazione in riferimento ad un senso (per Weber l’agire sociale è sempre un agire intenzionale dotato di senso). Esso, ovvero il tipo ideale, va pertanto distinto dal concetto di genere proprio delle scienze naturali, perché, nel caso delle scienze storiche o sociali, l’idealtipo è diretto alla conoscenza dell’individuale. Da qui l’impossibilità che quest’ultimo sia una semplice riproduzione della realtà, in quanto in esso si selezionano unilateralmente alcuni fattori del fenomeno studiato e li si generalizza in una costruzione ideale, logicamente compiuta e non contraddittoria, astratta certo, ma finalizzata alla conoscenza di connessioni reali. Un concetto, questo, ampiamente avversato dalla sociologia positivista, legata ad una visione dei fenomeni sociali come meri fatti immediatamente dati, visione però ritenuta epistemologicamente infondata dallo stesso Weber.
L’avalutatività e il metodo delle scienze storico-sociali vengono così individuati, nel passaggio dal secondo al terzo capitolo, come segnavia per intraprendere lo studio del nesso tra scienza e politica, anche alla luce delle strutture ordinamentali della società, nelle quali l’individuo in ogni caso vive e si muove.
Nella conferenza "La politica come professione", tenuta a Monaco nell’inverno rivoluzionario del 1919 e prima ricordata, Weber critica il politico delle convinzioni contrapponendogli il politico di professione, figura della quale tratta ed esamina la nascita, la funzione, la qualificazione e l’etica. Ma cosa sarebbe precisamente la politica per Weber? La politica, nella sua ottica, è concorrenza per la direzione o per influire sulla direzione di un’associazione politica, di un partito, di un ente istituzionale, di uno Stato. A differenza del funzionario, che appunto tiene in funzione la macchina organizzativa degli enti e dello Stato moderno, basandosi sulla responsabilità di altri, al politico di professione si richiedono capacità decisionali nella disputa pubblica e parlamentare, si richiedono, detto altrimenti, passione, responsabilità e fiuto per le cose della politica. L’ethos della politica medesima non può dunque essere determinato solo da un’etica della convinzione, con la sua fede in valori incondizionati, ma deve essere integrato da un’etica della responsabilità, che sia in grado di calcolare le conseguenze, gli effetti collaterali e sistemici dell’azione politica.
Sul fronte della scienza, invece, Weber mette in evidenza come la scienza stessa, benché sia stata tradizionalmente concepita come teoria ed esperienza di singoli studiosi, risulti essere un momento pubblico e sociale. Con l’avvento di uno stile di ricerca svolto all’interno di gruppi di studio, sia nelle scienze della natura, sia in quelle sociali, la prospettiva tradizionale della scienza ha subìto una profonda trasformazione. La scienza, secondo Weber, appare ora, nella sua “situazione esteriore”, come un'impresa a lavoro ripartito, laddove, nella sua “professione interiore”, essa appare come uno strumento intellettuale per la razionalizzazione del mondo. Certo, dal suo punto di vista, la preparazione scientifica nelle università mira alla formazione di una élite intellettuale; ciò nonostante la selezione per le carriere di ricerca e di insegnamento in campo accademico è sensibilmente determinata da fattori non legati ad un mondo intenzionalmente orientato, bensì da elementi non prevedibili.
Con questo, Weber intende sostenere come l’attività scientifica non sia determinata tanto da ispirazioni, intuizioni e lampi di genio, né da esperienze vissute, quanto piuttosto dalla ricerca metodica, nonché dalla prestazione specialistica nella disciplina quotidiana. Lo scienziato risulta così essere uno specialista non solo al servizio della propria causa, ma anche al servizio del progresso della società nel suo complesso. In effetti, il “dominio del mondo” è il telos stesso di quel processo di razionalizzazione che, attraverso il calcolo e la spiegazione ad opera della scienza e della tecnica, produce il “disincanto del mondo”.
In questo senso, la scienza come potenza specifica estranea a Dio non conferirebbe alcun senso di redenzione, né alcun valore ultimo, non tollerando alcuna profezia da cattedratici, né favorendo un interesse di tipo politico. Essa difatti non attribuisce valore, bensì spiega e comprende, basandosi sui presupposti della logica e sui suoi metodi. Nel suo essere “professione”, ossia esercizio retto dal logos, in essa non trova spazio, à la Nietzsche, nient’altro che la semplice probità intellettuale. Ergo la scienza si presenta come beruf, “professione” e insieme “vocazione”, “chiamata”.
La prognosi weberiana della istituzionalizzazione della scienza come ricerca specializzata formata da gruppi di ricerca professionali tra loro solidali è stata poi ripresa da Martin Heidegger e da Theodor Wiesengrund Adorno – seppure con riserve esplicite sul punto – ed è stata confermata empiricamente dalla sociologia della scienza.
Donde, il potere carismatico degli scienziati e l’oscillare della scienza tra processi di una sua sacralizzazione e di una sua messa in dubbio, quale potenza esclusiva in grado di illuminare la realtà del mondo.
Aporie queste da affrontare nella casa del diritto. Già, perché ogni "hybris", anche quella di una scienza ignara dei propri limiti, subisce la sorte di "nemesi" (vendetta), in una sorta di logica del contrappasso. E siamo al tema del quarto capitolo, il cui motore ruota intorno alla necessità di istituire o consolidare una riflessione giuridica in grado di contenere quella hybris, nella misura in cui si comprenda come una civiltà che pretenda di abolire i propri limiti è una civiltà perduta.
Da qui l’esigenza di promuovere nella parte conclusiva del lavoro una riflessione socio-giuridica che ricomprenda al proprio interno la vexata quaestio dei rapporti tra diritto e potere, tra etica e giustizia e appunto l’analisi del ruolo che il diritto medesimo può occupare all’interno di questi snodi concettuali. Un aspetto questo dalle molte sfaccettature che involve in sé anche la questione del nichilismo etico e politico: in effetti, il disincanto del mondo comporta la perdita di legittimità di ogni pretesa alla validità assoluta dei valori, lo scacco di ogni riferimento ad una sociologia della storia, l’impossibilità di reperire un significato univoco che ordini concettualmente la realtà valoriale. Ma a nostro avviso ciò non significa che il mondo della scienza e della tecnica diventi una struttura autoreferenziale, potenzialmente sciolta da ogni responsabilità nei confronti delle organizzazioni sociali. E forse è proprio lo stesso Weber a darci la chiave per comprendere come la scienza debba rispondere in senso critico anche ai quesiti dell’etica, della politica e del diritto.
Nel presente lavoro si è, dunque, tentato di indagare il rapporto tra scienza, politica e società alla luce del ruolo sociale del diritto, declinato soprattutto nella direzione della sociologia giuridica.
Seguendo Weber, si è cercato di capire se i processi di razionalizzazione della società e del mondo imposti dall’avanzata del sapere tecnico e scientifico mettano definitivamente all’angolo il momento etico dell’agire politico, consegnando l’essere umano ad un radicale politeismo dei valori, oppure se una totale isostenia degli stessi sotto la spinta della stessa razionalizzazione non esponga l’elemento politico ad una resa totale nei confronti della tecnica, rendendolo “il politico” impotente e sottomesso ai processi di quest’ultima.
Lungo questa direzione, si è specificato come la politica sia weberianamente da intendersi come luogo del conflitto per il controllo dello Stato, ovvero dell’apparato di coercizione della società. Definire lo Stato come apparato di coercizione non significa per Weber che tutti gli Stati esercitino continuamente la costrizione sulla maggioranza dei loro cittadini, ma solo che l’estremo ricorso alla forza è l’unica cosa che tutti gli Stati avrebbero in comune. In uno Stato democratico, il potere suddiviso fra i partiti in competizione e giurisdizioni separate rende possibile alla Stato stesso un uso ridotto dell’elemento coercitivo, sebbene esso permanga; Weber, in effetti, potrebbe sottoscrivere l’affermazione ancora di Hegel secondo cui la storia è l’ara sacrificale sulla quale sono state immolate la felicità dei popoli, la saggezza degli Stati e la virtù degli individui. Nella politica si possono distinguere tre componenti: i gruppi che lottano per il potere, le organizzazioni attraverso le quali si persegue si esercita il potere e le idee ed ideali che legittimano l’autorità (e si è visto come la sociologia di Weber ruoti sostanzialmente intorno a tre elementi strettamente interrelati: stratificazione, organizzazioni – comprensive degli Ordinamenti giuridici e dei gruppi di ricerca scientifici – e politica). Qui abbiamo preso in considerazione l’insieme di questi elementi, sempre in lotta tendenzialmente per il potere. I gruppi in lotta, si trovano nella stratificazione di una società e possono essere costituiti da classi economiche, gruppi di potere o ceti, professionisti della scienza, ciascuno interessato ad orientare lo Stato per i propri fini. Si è visto come vi siano poi diversi tipi di movimenti politici: quelli interessati alle politiche economiche e alla protezione e al controllo della proprietà; quelli interessati al potere per il proprio interesse o per ampliare il potere di un’organizzazione – sia essa un partito, la burocrazia, l’esercito, la polizia o il sistema giudiziario); quelli ancora interessati a veder sancita con uno status ufficiale da parte dello Stato una qualche cultura particolare.
Si sono qui anche prese in esame le varie forme di una sociologia giuridica concepita alla Weber, mettendo in luce alcune precondizioni dinamiche dello sviluppo della società e degli Ordinamenti normativi.
La dinamica della legittimità si è comunque posta come il problema centrale nell’analisi del rapporto tra scienza, politica e società.
Weber nel riconoscere che gli uomini hanno interessi materiali e di potere sottolineò che essi vedono la vita anche nei termini di idee e di ideali: gli uomini combattono e si fanno uccidere per le loro concezioni del mondo, oltre che per il potere e il denaro. La differenza tra il pensiero di Weber e le ingenue teorie conservatrici che considerano lo stato una unità spirituale sta nel fatto che Weber si accorse che gli ideali degli individui differiscono all’interno della stessa società. Gli uomini hanno sia interessi materiali che ideali e questi spesso sono in contrasto. Del resto, Weber notò anche che una società non può essere tenuta insieme dalla semplice forza, dal puro potere coercitivo.
Weber aveva sufficiente dimestichezza con la storia e con la stampa dell’epoca per sapere che gli ordini non sempre vengono obbediti e che la legittimità di un capo o di un regime può crescere o cadere; di conseguenza egli era interessato alle fondamentali dinamiche della legittimità e fu per questo che egli individuò i celeberrimi tre tipi ideali di legittimità, sui quali si è soffermata a lungo una delle interpreti più lungimiranti del pensiero weberiano, Simona Andrini. Così, l’autorità può basarsi sulla tradizione, sul carisma, sul potere legale.
Ogni forma di legittimità possiede vantaggi e svantaggi. Tuttavia, alla luce della grande trasformazione della storia che Weber chiama secolarizzazione, la legittimazione politica tende appunto ad essere cancellata dal potere incalcolabile della scienza e della tecnica.
La ricerca di Weber lo portò al tentativo di descrivere il profilo della storia del mondo. Se il punto di partenza fu l’analisi del sistema economico moderno, il suo punto di arrivo fu quello di capire come la sua caratteristica principale fosse la prevedibilità, quella prevedibilità che alla fine ha messo l’individuo e la collettività in un regime di subordinazione rispetto agli stessi processi di razionalizzazione, con la conseguenza di delegittimare l’azione stessa della politica.
Rispetto a questo esito si è cercato di mostrare come una riabilitazione della legittimità del potere politico passi attraverso l’elemento giuridico, un elemento giuridico orientato sostanzialmente da tre scopi fondamentali.
Il diritto qui avrebbe la funzione di riportare l’idea di un inarrestabile processo di razionalizzazione entro i propri limiti, in quanto una civiltà che pretende di abolire il limite è una civiltà perduta. E non solo perché non riconosca i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce il senso che solo il limite può attribuirle. Questo è quanto viene a mancare in un progetto tecnico orientato ad una ideale quanto impossibile crescita infinita, generando una instabilità e un’aggressività endemiche. Ergo. Il diritto, nella sua versione sociologica, dovrebbe mettere a punto strumenti nell’ordinamento per stabilizzare la supposta crescita infinita, addivenendo ad un orizzonte retto dai due principi fondamentali dell’equilibrio ecologico e della correlazione sociale.
Ne segue il progresso tecnico, e il predominio che la scienza sta assumendo nei confronti della politica, debbano essere in qualche modo ripensati. Non è infatti esso, il progresso tecnico e scientifico, la causa del venir meno dei fini dell’agire umano e politico, ma lo è il suo asservimento al progetto di una cieca accumulazione capitalistica. Se la sintesi di tecnica e mercato ha costituito il segreto del trionfo capitalistico, oggi questa sintesi rischia di rappresentarne la prigione.
Il problema allora non sarà quello di sottrarsi alla tecnica, bensì di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato, ponendola al servizio della conoscenza e dell’etica.
In questo senso, l’equilibrio ecologico e l’inversione di una crescita economica basata esclusivamente sulla sterile e autodistruttiva accumulazione, sembrano diventare la premessa necessaria ad una sorta di umanesimo trascendente, teso allo sviluppo esistenziale della specie umana.