Titolo della tesi: Immagini della bellezza della mulatta tra Cuba e l’occidente
La tesi è strutturata in due parti: la prima, intitolata "Tropico del desiderio" e la seconda, "La bellezza della mulatta. Pratiche cubane".
La prima parte, riflette sulla rappresentazione di Cuba come isola sessualizzata ed edonista, promossa dal simulacro della mulatta attraente per i turisti, fabbricato nel corso di processi di scontro, resistenza e transculturazione. Un primo capitolo, «La joie de vivre tropicale». Visioni europee del lussureggiante guarda alla stereotipizzazione del vasto paesaggio dei tropici come meta di viaggio occidentale e si concentra sulla produzione antropofagica di lunga durata, bianca e maschile, di un immaginario eurocentrico che associa l’indigena all’idea di delizia da cogliere e mangiare. Il capitolo successivo, "L’invenzione di Cuba-isola paradiso e del corpo di zucchero della mulatta", approfondisce la produzione culturale cubana per osservare il peso della metafora dello zucchero, elemento centrale dell’economia cubana, divenuto metafora alla dolcezza della mulatta. Il mito della disponibilità sessuale è analizzato, inoltre, passando in rassegna la produzione delle scienze sociali sul tema della prostituzione, jineterismo e turismo de romance nella capitale.
Nella seconda parte della ricerca, "La bellezza della mulatta. Pratiche cubane", l’analisi si concentra sulla produzione culturale di immagini e pratiche di rappresentazione autoctone: il dire la mulatta, il dipingerla, il farsi belle nella vita quotidiana della capitale.
Il terzo capitolo, "Mutamenti di un simulacro. La curra, la mulatta tragica, la rumbera e la sandunguera" analizza le stratificazioni storiche del simbolo della mulatta tra antropopoietica nazionale e affermazione della teoria della mulatez nel contesto di mobilitazione artistica e etnografica de La Habana anni Trenta. Figure centrali in questo percorso sono l’etnologo Fernando Ortiz, il poeta mulatto Nicolás Guillén ma anche figure di dive come Rita Montaner, Ninón Sevilla, Omara Portuondo, celebrate per la loro mulatez, qualità di genio artistico, costruita, a partire dai tardi anni Quaranta come attributo dissociabile dal colore epidermico, riconoscibile anche alla popolazione bianca. L’analisi della pratica del dire la mulatta è seguita da uno studio delle immagini portato avanti nel capitolo Primitivismi rovesciati. Immagini della mulatta tra Cuba e il vecchio mondo Europa. La riflessione si muove qui mettendo in rapporto le immagini osservate nella pittura cubana esposta nel Museo de Bellas Artes di Cuba con la produzione iconografica europea, considerando rapporti di mimetismo, rifrazione e «guerra delle immagini» e il rovesciamento di sguardi primitivisti perduranti.
Infine, l’ultimo capitolo, "La pasa e la sandunga. Farsi belle a La Habana" è dedicato a esplorare il rapporto tra soggettività e immaginario indagando ideali di bellezza e tecniche quotidiane di cura del sé, arrangiandosi tra ricette di bellezza tradizionali e ricerca di prodotti estetici che scarseggiano nel ristretto mercato dei consumi cubano. Tecniche per allisciarsi i capelli e smaltarsi le unghie o sculettare rivelano la bellezza della mulatta come una chiave di lettura eccellente per ricercare il vissuto del tempo non mercificato in una società non capitalista e allo stesso tempo la fame di alterità indotta dalla condizione prolungata del bloqueo economico che soffoca l’isola.
L’obiettivo di questo lavoro è illustrare forme e percorsi di quello che nella tesi è definita una “vaccinazione deloloniale cubana” e mettere in luce le molteplici rappresentazioni indigene della soggettività mulatta, oltre la fragilità di simulacri resistenti. Al centro dell’analisi, condotta attraverso due tappe principali di ricerca sul campo a La Habana nel 2019 e nel 2020, è la pratica cubana del gioco e dell’ironia, usata come arma di decostruzione della colonialità. Tale senso del gioco è emerso, in particolare, nel concetto indigeno molto diffuso di “sandunga”, parola che significa una dote di sale e pepe della mulatta e attribuisce a questa donna un habitus di agentività che la rende una figura liminale, capace di valicare storicamente la frontiera della linea del colore.
La tesi poggia su un’etnografia multisituata, svolta prima lavorando sulla produzione culturale cubana, in particolare nel contesto del Museo de Bellas Artes de Cuba, poi sulla quotidianità, indagata attraverso interviste qualitative avvenute con interlocutrici per lo più mulatte in vari quartieri de La Habana. Dal punto di vista teorico, la tesi prende posizione per una provincializzazione del sapere eurocentrico, operando una scelta precisa rispetto alla cassetta degli attrezzi euristici adottati nella quale entra l’idea di “conquista” invece che quella di “scoperta”, di sandunga invece che di agency, di sabor invece che di sexyness della mulatta. La semantica quotidiana cubana è in questo senso mobilitata come necessaria chiave di lettura per addentrarsi nella cultura cubana contemporanea e per comprendere l’attuale società rivoluzionaria come un “matriarcato patriarcale” nella formazione del quale l’invenzione della mulatta caliente ha avuto un ruolo fondamentale.